Il clarino


commovente racconto sulla vita di Vincenzo Luparia, scritto
da Luigina ed Elsa Zai

Per gentile concessione di
Luigina ed Elsa Zai

da “Monferrato Perduto”
collana “La Fenice” diretta da Teresio Malpassuto
stampato presso Artigiana S. Giuseppe Lavoratore – Vercelli
reperibile presso le librerie Giovannacci e Libro Idea di Casale Monferrato

I proventi della vendita del libro saranno destinati all’associazione Vitas di Casale Monferrato

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IL CLARINO

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Vi sono passioni innate, predisposizioni, talenti di cui ognuno può essere portatore inconsapevole fino al momento in cui la vita, il destino o la fortuna offrono l’opportunità di esprimerli.
Dei dieci bambini della mia famiglia tra fratelli e cugini, Vincenzo era il primogenito, e anche il più calmo e riflessivo. Forse per questo era affettivamente il più vicino alla granda allora già molto anziana ma sempre straordinaria ed attenta nei confronti di noi bambini; e quando il nonno non ci fu più, anche se piccolo, Vincenzo volle andare a dormire accanto a lei, nel lettone di ferro. La sua indole timida e chiusa ma supportata dall’intelligenza, non gli impediva di essere curioso, di sapere e di conoscere, ma soprattutto di ascoltare, e la granda, vedendolo fra tutti il più attento ed interessato ai racconti sulle vicende della sua vita, lo privilegiava.
Aveva, nonna Prospera, una stanza piena dei suoi oggetti e dei suoi ricordi che, come ci raccomandava, non dovevamo ne toccare ne tanto meno rovistare. Se poi le occorreva spostare o portare qualcosa all’interno della camera, chiamava sempre Vincenzo, che oltre ad essere il più grande, era molto riguardoso e rispettoso di tutto ciò che le apparteneva. Crescendole accanto incominciò anche a far domande su tutto ciò che le vedeva intorno, sulle fotografie sparse un po’ ovunque; domande e curiosità che la granda con disponibilità e pazienza fu sempre contenta di soddisfare.
…”Un giorno, avrò avuto sette od otto anni – ricordava mio fratello – avevo portato la legna nella stanza della nonna perché non mancasse il fuoco nel suo Franklin di terracotta smaltato, di un lucido marrone scuro (d’inverno veniva acceso quando lei era ancora a letto per permetterle di fare colazione con un po’ di tepore prima di scendere al piano di sotto). Visto che mi attardavo ad osservare in giro, e come d’abitudine fissavo sul suo comò la fotografia dello zio Cesare caduto in guerra, ella facendomi sedere vicino, mi raccontò di quel figlio perduto, bravo e benvoluto da tutti, della cui mancanza non si era mai data pace e del quale conservava ancora, fra i suoi pochi effetti, il clarino, lo strumento che, pur giovane, lo zio Cesare aveva suonato nella banda del paese.
Quando le chiesi dove lo tenesse si alzò ed andò ad aprire il suo bei guardaroba di noce. Era un mobile alto da toccare quasi il soffitto, pieno di tanti vecchi vestiti ancora ben conservati, appesi alle grucce ed inframmezzati a tanti mazzetti di lavanda profumata. In basso, all’interno di un cassettone, fra lenzuola di ruvida tela, la nonna tirò fuori un pacco ben incartato e lo pose sulla superficie piana e lucida del Franklin, incominciando a svolgerlo”.
Per sempre Vincenzo conservò nella mente il momento in cui gli apparve non una scatola od un astuccio, ma una custodia di panno verde simile ad una borsa ricamata, da un lato, con un ramo di fiori colorati e, dall’altra, con le grandi iniziali del nome di quel povero zio; poi lo stupore di quello strumento mai visto prima, lucido, nero, ricoperto da fori e chiavi corte e lunghe, argentate. Avrebbe voluto toccarlo, prenderlo in mano ma quando alzò lo sguardo sul volto della granda e vedendo i suoi occhi colmi di lacrime ed alcune cadere su quel panno verde, rimase fermo senza parole, comprendendo, anche se piccolo, che non doveva andare oltre quel dolore. Nonna Prospera pur nella sua composta sofferenza aveva compreso la viva attrazione di Vincenzo per lo strumento e non gli tolse la speranza di rivederlo ancora dicendogli, mentre lo riponeva: “La prossima volta lo potrai guardare e tenere di più”.
Intanto gli anni trascorrevano, noi crescevamo.
Vincenzo aveva finito la scuola, non dormiva più con la granda, andavamo noi bambine.
Lei diventava sempre più stanca e debole; passava lunghi periodi a letto, durante i quali il ragazzo assiduamente le faceva compagnia. Vedendolo sempre più assennato e rispettoso, la nonna gli affidava i suoi ricordi, fiduciosa che li avrebbe conservati nel tempo. Lo rese felice dicendogli che poteva prendere il clarino in qualunque momento, ma lui non gli si accostò mai se non in sua presenza.
Gli fu donato negli ultimi mesi di vita insieme alla fotografia di tutto il gruppo musicale di cui il figlio aveva fatto parte e nella quale lo si poteva vedere seduto in prima fila con il clarino in mano.
A tredici anni Vincenzo stringeva in mano quel meraviglioso strumento e piangeva la nonna che non c’era più. Al suo dolore si accompagnava vivo il desiderio di imparare a suonarlo. Ma troppo ristretto era il suo mondo per poter assecondare quella passione: il duro lavoro dei campi, la famiglia numerosa, l’impossibilità di frequentare la atta mancando l’insegnamento musicale nei paesi. Mio padre comprendendo il suo stato d’animo lo aiutava come poteva nella conoscenza dello strumento, avendolo suonato anch’egli da giovane. Lui attento com’era, aveva subito imparato a maneggiarlo, a montare e smontare le parti in legno d’ebano: bocchino, cilindro, campana scorrendo con facilità le dita sui fori e sulle chiavi.
Però non conosceva la musica.
Forse fu il suo carattere incline al sapere o forse fu la sorte benigna quel giorno a favorirlo. Mio padre, guardando insieme le antiche fotografie della banda musicale mai più ricomposta per le troppe perdite causate dalla guerra fra i suoi giovani componenti, si ricordò dell’anziano maestro ancora vivente che abitava poco distante, e promise al figlio di parlargli, essendo oltretutto buoni amici.
Furono contenti in due: il vecchio maestro ancora in gamba e sempre appassionato alla musica ed al suo strumento (suonava anche lui il clarino) e mio fratello che vedeva realizzarsi il suo sogno.
Alla paziente scuola di Modesto, così si chiamava l’anziano conoscente, Vincenzo imparò presto, e fra esercizi, solfeggi e scale eseguiti insieme, si appassionava facendosi bravo. Ma per i suoi giovani anni erano tempi duri, carichi di fatiche, di rinunce, e di sacrifici. Solo d’inverno poteva esercitarsi: nella buona stagione si lavorava dall’alba fino a tarda sera e non c’era tempo per la musica. Recuperava nei freddi inverni, e mentre i suoi coetanei riposavano al caldo o si divertivano nei circoli a giocare a carte, il ragazzo riprendeva il suo strumento ed i suoi libretti di musica e, attraversata la valle, saliva la collinetta di Modesto che lo aspettava contento sia per la musica suonata insieme, sia per la compagnia: per lui era come il tepore del sole al suo inoltrato inverno.
Non era facile per mio fratello, poco più che adolescente, affrontare le buie e gelate notti invernali e vincere la paura che inevitabilmente lo assaliva nell’attraversare la valle fra alberi e stretti sentieri. Ricordo che i miei genitori stavano in pensiero e gli raccomandavano sempre di non fare tardi. Lui rassicurandoli, affermava di non aver paura perché non c’era nulla da temere; ma nostra madre aspettava sempre il suo ritorno ancora alzata, ed una volta successe qualcosa che Vincenzo non volle mai raccontare e che tuttavia non gli impedì di continuare la scuola del maestro.
…I tocchi del vecchio pendolo battevano le undici, l’ora abituale del ritorno, ma quella sera Vincenzo tardava e mia madre cominciava ad impensierirsi. Di continuo scrutava nel buio e nella nebbia che densa saliva dalla valle; si fermava qualche istante sulla porta ad ascoltare se risuonasse il rumore dei passi, poi rientrava a guardare l’ora che lentamente scorreva.
Era quasi mezzanotte quando l’uscio si aprì e comparve Vincenzo pallido in volto che, senza dire una parola, andò a sedersi. La mamma gli fu accanto incominciando a fargli domande alle quali non rispondeva. Poi si alzò dicendo: “Andiamo a dormire e non chiedetemi più nulla di questa notte”.
Su cosa avesse visto o chi avesse incontrato non fece parola alcuna ed i miei genitori rispettosi del suo silenzio non indagarono oltre. Lo osservammo per qualche giorno un po’ preoccupati, era diventato taciturno e non frequentava più la casa di Modesto. Poi la passione per la musica ebbe il sopravvento: tenace e coraggioso riprese fogli e clarino e cambiò strada.
Arrivarono i diciotto anni, la visita di leva, il servizio militare con la tragedia della guerra alle porte. Fu arruolato nell’aeronautica e dovette partire.
Come un quarto di secolo prima zio Cesare aveva lasciato a casa quel clarino, così mio fratello avvolse ancora nella custodia di panno verde lo strumento ed i fogli di musica, raccomandando alla mamma di custodirli. All’aeroporto di Bresso, dove era stato destinato, nel compilare i documenti personali gli domandarono se oltre ai lavori della terra sapesse svolgere qualche altra attività.
Rispose di suonare il clarino.
Presero nota e qualche giorno dopo gli proposero un corso da trombettiere: accettando sarebbe stato mandato a frequentare la scuola di Roma, ai Parioli. Vincenzo non ci pensò due volte: la tromba era un altro strumento che gli piaceva ed ancora di più studiare musica. Anche se breve, quello fu per lui un periodo sereno che gli permise di ammirare le bellezze di Roma e di approfondire lo studio. L’insegnante notando la sua passione ed il continuo impegno, al contrario di altri che frequentavano il corso solo come alternativa ai fronti di guerra, lo prese a benvolere ed egli in poco tempo riuscì a modulare quei suoni che dovevano scandire i ritmi della vita dei soldati nella caserme. Il suo primo servizio da trombettiere lo svolse all’aeroporto di Cameri, vicino a Novara.
Era contento di essere poco lontano da casa, ma soprattutto non esposto al conflitto in atto.
Un destino avverso però lo attendeva.
Per lui e per altri commilitoni arrivò l’ordine di trasferimento: destinazione Corsica. Il tempo per salutare le famiglia poi l’imbarco a Livorno e l’approdo ad Aiaccio.
La follia della guerra non aveva confini!
Sempre con dolore Vincenzo ricordava quella partenza piena di angoscia e di paura, quando in piena notte salparono con il diffuso timore di essere avvistati dagli aerei americani e finire in fondo a quel mare nero come la pece, che insieme alla vita avrebbe sepolto i sogni di tornare a suonare il clarino, magari in qualche festa di paese della sua terra ormai lontana.
Improvvisamente quei soldati si trovarono in un luogo estraneo, a trascorrere giorni nel disagio e fra mille difficoltà, male equipaggiati e scarsamente organizzati con a poca distanza un presidio tedesco.
Venne l’otto settembre con la resa dell’Italia agli Americani, ed il nostro esercito allo sbando. Il piccolo drappello si trovò isolato, i pochi ufficiali non ricevendo ordini non ne potevano dare mentre i Tedeschi stavano avanzando: poche ore per scegliere se aggregarsi a loro o diventarne nemici. Insieme scelsero la libertà, salirono sui mezzi di cui disponevano ed abbandonando tutto tentarono la fuga verso il mare di Sardegna.
Un caccia tedesco li inseguì mitragliando e Vincenzo rimase ferito ad una mano, iniziando così l’odissea della sua vita. Non poteva farsi visitare ne medicare da un medico; vagava con gli altri alla macchia con la paura di essere preso dai tedeschi e quando riuscì a mettere piede in Sardegna, stava male: la mano dolorante, il braccio gonfio e la febbre alta. Intanto l’esercito americano avanzando in Italia era sbarcato nell’isola; il gruppo di sbandati si consegnò al primo comando diventando prigionieri di guerra. L’ufficiale medico dopo aver visitato mio fratello si rese subito conto della gravita in cui versava: aveva l’infezione e la cancrena. Intervenne prontamente amputandogli il pollice della mano sinistra e salvando alla meglio le altre dita. Di quel periodo doloroso e triste Vincenzo ci pregò sempre di evitargli il ricordo.
Purtroppo sostando lungo gli acquitrini ed i luoghi malsani aveva contratto la malaria che riusciva a controllare con le medicine fornitegli dagli occupanti. Essendo soldati dell’Aeronautica, il comando americano assegnò ammalati e feriti alla loro base aerea di stanza in Italia, a pochi chilometri da Roma.
Quando furono imbarcati su un vecchio aeroplano militare, ricordava Vincenzo, non provò nessun timore mentre il malandato mezzo sorvolava il mare tra vuoti d’aria ed impennate, tanto era contento ed ansioso di ritornare a casa sul continente, in patria: quella patria straziata e divisa, che per le loro condizioni di prigionieri non poteva più essere la stessa di prima.
Schedati, rifocillati, rivestiti con le tute degli Americani, sottoposti ad ordini e mansioni diversi, si accostarono ad un mondo che li impressionava fortemente per la superiorità e la potenza dei mezzi di cui disponeva.
Le difficoltà della lingua e le scarse informazioni non permettevano ai nostri di conoscere ciò che avveniva oltre la linea di occupazione. Potevano immaginarlo soltanto quando a sera partivano da quella base i grandi bombardieri, e dalle truppe a terra si sentiva e si capiva la parola incursione ed il nome di diverse città del settentrione. Al mattino un sergente li portava presso quelle fortezze volanti perché ripulissero l’interno da tutto ciò che i piloti avevano lasciato durante la missione notturna. Quel lavoro però lo faceva star male, soprattutto la vista di tanto benessere di cui gli Americani disponevano mentre andavano a seminare morte e distruzione. Il sergente permetteva che loro, i prigionieri, prendessero tutto ciò che volevano, tanto le sigarette, il cioccolato, i dolci ed i liquori, alla fine, si sprecavano e venivano buttati via.
A lui però non verme mai voglia di raccattare nulla. Dei mesi passati al seguito dell’esercito americano, Vincenzo ricordava quanto l’avessero stupito materiale e strutture messi a disposizione per il tempo libero dei militari: biblioteche, sale giochi, palestre, locali per suonare. A lui, che da molto aveva la-sciato la musica, piaceva soffermarsi ad ascoltare, anche se era musica completamente diversa dalla sua.
Un giorno con la ramazza stava scopando in un locale in cui un soldato seduto al pianoforte suonava battendo in modo frenetico sui tasti. Vincenzo si avvicinò piano e rimanendogli dietro si fermò ad ascoltare. L’altro si accorse della sua presenza e si alzò chiedendogli in una lingua che ormai capiva se sapesse suonare, e quando accennò di sì, gli indicò lo sgabello e la tastiera. In quel momento indeciso se rifiutare o provare, gli vennero in mente le musiche del suo vecchio maestro. D’istinto posò le mani sui tasti ed accennò ad alcune note di un pezzo a lui caro, suonato tante volte: Sulle onde del Danubio.
“Strauss, Strauss” esclamò sorridendo il milite americano, poi alzò le spalle come se quello non lo interessasse e riprese a strimpellare sulla tastiera. Forse pur conoscendo la musica classica preferiva quei suoni ritmati del suo mondo che di lì a poco avrebbero invaso anche l’Italia.
Passavano i giorni ed i mesi, l’armata americana proseguiva verso il nord spostando la base aerea a Pisa; si percepiva che la tragedia della guerra stava per concludersi e con essa si ravvivava la speranza di tornare a casa.
Non fu facile il rientro con lo sconforto della mano menomata, le notizie dei compagni ed amici perduti, il conoscere con i tanti orrori anche quelli della guerra civile.
Ma il tempo, medicina di tutti i mali, piano piano leniva le ferite della guerra. Non più oscurate, le città si illuminavano di feste, la gente aveva voglia di uscire e di riprendere la vita di sempre, la gioventù di divertirsi e di ritrovarsi ovunque si suonasse o si ballasse. Vincenzo riprese in mano il clarino ma si trovò nell’impossibilità di usarlo per il pollice che gli mancava. L’amarezza ed il timore di non poterlo più suonare erano mitigati dal pensiero che forse il percorso intrapreso grazie al clarino, gli aveva risparmiato se non la sofferenza, la vita. La grande passione che Io aveva accompagnato fin da bambino, gli permise però di portare con infinita pazienza ed ingegno delle modifiche allo strumento, grazie alle quali poté riprendere a suonare.
La giovinezza, anche se lacerata da quella tragedia, si faceva sentire con i suoi richiami. Incominciò così, con qualche compagno e nuovi amici, a frequentare i luoghi in cui si ballava: agile e snello e conoscendo bene la musica non aveva problemi a seguirne il ritmo, ma non fu accettato a causa della ferita che aveva subito. Ai suoi timidi approcci ed inviti per un ballo, le ragazze posavano lo sguardo sulla mano mutilata e giravano il viso altrove. Quei comportamenti percepiti come un inequivocabile rifiuto ferirono profondamente il suo animo sensibile, facendo crollare speranze e desideri.
Cadde in depressione.
Rinchiuso in se stesso lasciò gli amici, la musica ed il clarino. Non usciva più e non parlava più con alcuno. I familiari in pena gli stavano vicino esortandolo a tornare a suonare, ma lui amareggiato e disilluso non ascoltava.
La vita però, a volte ti viene a cercare con un segno, un’opportunità: per Vincenzo l’occasione gli venne data dall’intuizione di mio padre che non aveva mai perso la speranza di poterlo aiutare. Un giorno in città, incontrando un suo conoscente che suonava nella rinomata banda La Monferrina, aveva sentito che il gruppo musicale stava cercando qualche elemento in più, soprattutto clarini. Subito mio padre gli propose il figlio, informandolo però della situazione che si era venuta a creare. Quel brav’uomo promise, mantenendo la parola, di venire a parlare con mio fratello e nonostante lo avesse trovato restio e disanimato insistette perché gli eseguisse qualche pezzo. Si complimentò alla fine, e pregandolo di continuare ad esercitarsi, lo salutò con un arrivederci a presto. Dopo una settimana ritornò accompagnato dal maestro della Monferrina perché potesse valutare oltre la capacità anche il caso umano del ragazzo.
La sensibilità del maestro Mesturini aveva compreso che, al bisogno di aumentare i componenti della banda, c’era quello di aiutare una vita umana che vacillava. Dopo aver ascoltato una breve esecuzione posò una mano sulla spalla di Vincenzo e senza giri di parole gli disse con tono fermo: “Abbiamo bisogno di te: questa sera c’è una prova. Ti mando a prendere”.
Vicenzo non rispose, a testa bassa andò a sedersi in un angolo; capiva che grazie a quello strumento la sorte ancora una volta gli veniva incontro tendendogli una mano: se l’afferrava forse risaliva la china in cui stava precipitando.
Vinse la speranza nella vita, strinse quella mano ed incominciò la difficile risalita.
Se non fu felice nella sua esistenza, fu almeno sereno. Per le ferite che si portava, molto gli fu negato, ma l’intelligenza, la passione, gli interessi e le capacità, nel tempo e con gli anni altro gli diedero. Inserito in quella banda, trovò compagni ed amici sinceri con i quali condivise tante indimenticabili giornate e serate di musica. Era contento quando indossava le belle divise della Munfrin-a e partiva con il gruppo a portare in giro per l’Italia, insieme alla musica, il nome della nostra città. Conobbe l’emozione del palcoscenico e gli applausi di un pubblico sempre numeroso e caloroso ai loro concerti, ma fu sconcertato quando, dopo parecchi anni, la Monferrina si sciolse e non si riformò più, senza sapere mai il perché.
Continuò comunque a suonare in altre bande, di Pontestura, di Cereseto, di Palazzolo e poi, già piuttosto anziano, nella Filarmonica di Occimiano che frequentò fin quando riuscì a stringere e posare le dita sulle chiavi argentate di quello straordinario strumento.
Dalla vita Vincenzo non si aspettò più nulla, avendo mai nulla preteso. Alla fine dei suoi giorni chiese soltanto ai parenti che il clarino gli venisse posto accanto per restare come nella vita, insieme per sempre.