Questa è la storia di una nota, di uno di quei tanti pallini neri sparpagliati sul pentagramma che quando prendono vita sanno raccontare storie bellissime, a metà tra il sogno e la realtà.
Lei era una semiminima, ed era anche molto orgogliosa di esserlo. Solo un pallino nero, questo sì, ma con una bella gambetta che a seconda dell’umore girava verso l’alto, quando parlava di cose più profonde, oppure verso il basso, quando era felice e volava in alto sul rigo. Era anche molto amata dai musicisti, soprattutto dai principianti, soleva ripetere, perché la sua durata di un quarto non li obbligava a veloci diteggiamenti che finivano spesso in frittate incomprensibili e neppure a sostenere troppo a lungo il suono, cosa che metteva a dura prova i loro polmoni e il labbro.
Non sopportava le sue sorelle minori, che a suo dire non valevano la metà di lei, o nemmeno la metà della metà, o addirittura la metà della metà della metà, eppure si davano così tante arie perché erano solite abbellire la loro gambetta con taglietti sempre bene allineati e in ordine, simili a ciuffi di capelli imbrillantinati, e perché erano molto apprezzate dai virtuosi, che se ne servivano per stupire il pubblico.
Ma la nostra nota di questo non si curava. Era contenta di essere suonata da tutti i musicisti, giovani e meno giovani, bravi e meno bravi, e da tutti gli strumenti per le storie e le emozioni così diverse che ne scaturivano, come quando si sentiva vibrare fino a temere di perdere la gambetta allorché usciva da un basso o da un bombardino, facendosi tappeto per la danza delle sue note sorelle, oppure come quando si sentiva scaraventata in alto, quasi sopra le nuvole, dai flauti e dagli ottavini, a cantare la melodia e a danzare la gioia di vivere.
Una cosa che la nostra nota amava in modo particolare era il modo diverso che ogni musicista aveva di crearla e, poi, di accarezzarla. C’erano quelli più ruvidi che la facevano subito scoppiettare viva ma poi, a volte, l’abbandonavano troppo presto, prima della sua naturale durata, e questo la faceva molto arrabbiare, e c’erano quelli più timidi e sensibili che le davano vita appena con un soffio della loro anima ma poi la sostenevano tenaci, quasi restii a lasciarla morire per dare vita a un’altra nota.
Tra questi c’era un bambino piccolo ed esile, che chiameremo Mariolino, che aveva terminato il Corso di avviamento bandistico ed era da poco entrato nella banda. Era uno di quei bambini che hanno dentro un mondo di emozioni, a volte l’inferno e altre volte il paradiso, ma non sanno o non hanno il coraggio di raccontarli. Parlava pochissimo ma sembrava felice di parlare attraverso il suo strumento, poco o nulla interessato al fatto che le sue note eteree venissero sommerse dal volume di suono della banda, le cui onde sonore sono spesso simili ai cavalloni di un mare in tempesta.
Accadde che durante una prova del venerdì Paolo, il Maestro, nel bel mezzo di un brano che eseguivano per la prima volta si rivolse ai presenti e disse: “Qui tutti gli accompagnamenti devono suonare piano, pianissimo, e deve venire fuori la frase che ha il solista. È importante farla sentire fin dal primo quarto del levare. Vuoi provare tu a suonarla, Mariolino? Te la senti?”
Per un attimo Mariolino rimase come paralizzato, con il fiato che non voleva saperne di andare né su né giù, ma poi con uno scatto del suo orgoglio, alimentato dalla fiducia che sentiva da parte del Maestro, reagì con un lieve cenno affermativo del capo.
Poi il Maestro contò quattro e tutta la banda iniziò a suonare le battute che precedevano il suo attacco. A Mariolino parvero le battute più lunghe del mondo, perché nel frattempo la sua mente suonava e risuonava all’infinito le note del solo per prepararsi ad eseguirle, e quando il momento venne, nel silenzio generale del salone la semiminima della nostra storia si arrampicò su su per la gola secca di Mariolino, si contorse e inciampò nella sua lingua ruvida, quasi non volesse uscire, per prendere poi corpo all’interno dello strumento e liberarsi infine nell’aria, all’inizio un po’ incerta e vacillante, poi sempre più rotonda e squillante.
Alcuni musicisti osservavano Mariolino di sottecchi, emozionati essi stessi, altri volsero lo sguardo verso il Maestro, questa volta non per carpire un attacco o seguire un rallentando, come di tanto in tanto accadeva, ma per osservare le sue reazioni. E si accorsero che, nascosto dietro il movimento ritmico della sua bacchetta, Paolo sorrideva.
Sorrideva perché quella, per lui, era la nota più bella che avesse mai sentito.
Con affetto
Gianni
a Paolo Meda
per il 30° Anniversario di Direzione della Banda
‘La Filarmonica di Occimiano’
29 novembre 2009